Locazioni commerciali e Covid: nessuno sconto. Ma…

A dispetto di una situazione socio-economica ancora estremamente incerta, nei tribunali italiani non si registra un mutamento di indirizzo in ordine alle conseguenze del mancato versamento dei canoni di locazione relativi ad immobili commerciali.

Ad eccezione di quanto stabilito con riferimento a palestre, piscine ed impianti sportivi, nessuna norma – tra quelle contenute nei vari decreti che si sono succeduti negli ultimi mesi – prevede infatti l’eventualità di ridurre o sospendere i versamenti da parte dei conduttori (che vengono a trovarsi sempre più in difficoltà nel fronteggiare le scadenze periodiche), ma soltanto la possibilità di sospendere gli sfratti.

Pertanto, alla luce di quanto stabilito dall’art. 1467 c.c., l’unico rimedio rimane quello ordinario della risoluzione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta: tale rimedio, tuttavia, potrebbe non essere rispondente agli interessi del locatario ma addirittura, in concreto, rivelarsi ancor più lesivo dei medesimi, comportando l’obbligo di corrispondere per intero i canoni di locazione arretrati.

Tutt’al più, il giudice potrebbe decidere di invitare le parti a concordare una rinegoziazione del canone mensile, dal momento che la legge contempla la preventiva pattuizione in tal senso.

Del resto, la normativa inerente alle misure emergenziali non fa venir meno l’obbligo di corrispondere i canoni, consentendo soltanto di valutare la condotta del debitore nel senso di escluderne la responsabilità a fronte di  un ritardo nel pagamento.

In un solo caso, ad oggi, un giudice ha dimostrato grande sensibilità alla tematica in questione: con ordinanza del 27 agosto 2020, la Dott.ssa Pasqualina Grauso del Tribunale di Roma ha infatti disposto “… la riduzione del canone di locazione del 40% per i mesi di aprile e maggio 2020 e del 20% per i mesi da giugno 2020 a marzo 2021; si rileva al riguardo che, anche dopo la riapertura dell’esercizio commerciale, l’accesso della clientela è contingentato per ragioni di sicurezza sanitaria”.

Ciò in quanto “… qualora si ravvisi una sopravvenienza nel sostrato fattuale e giuridico che costituisce il presupposto della convenzione negoziale, quale quella determinata dalla pandemia del Covid-19, la parte che riceverebbe uno svantaggio dal protrarsi della esecuzione del contratto alle stesse condizioni pattuite inizialmente deve poter avere la possibilità di rinegoziarne il contenuto, in base al dovere generale di buona fede oggettiva (o correttezza) nella fase esecutiva del contratto (art. 1375 c.c.)”.

Da tali considerazioni il giudicante fa discendere la conclusione che “… sorge, pertanto, in base alla clausola generale di buona fede e correttezza, un obbligo delle parti di contrattare al fine di addivenire ad un nuovo accordo volto a riportare in equilibrio il contratto entro i limiti dell’alea normale del contratto”.

Una riflessione conclusiva si impone. La locazione di natura commerciale si basa in fondo su una semplice equazione: Tizio utilizza il bene di Caio non per diletto ma per svolgere un lavoro, una attività nei relativi locali oggetto della locazione, i quali, si presuppone ed è evidente, non hanno per Caio analogo interesse. Pertanto, ove l’attività commerciale di Tizio, qualsiasi essa sia, abbia un’interruzione od un decremento per cause totalmente indipendenti tanto dalla capacità imprenditoriale del medesimo che da situazioni che lo interessino soggettivamente, cause di forza maggiore come quelle drammatiche che attengono alla presente emergenza sanitaria, si ritiene contrario al senso etico che dovrebbe essere sotteso a quello giuridico ritenere le stesse ininfluenti sulla corrispettività, per così dire, delle prestazioni in gioco. Deve quindi  annotarsi con particolare favore questa coraggiosa interpretazione del Tribunale romano e del Giudice estensore del provvedimento sopra richiamato, auspicandosene una attenta considerazione da parte delle altre Corti italiane.

Lo Stato è tenuto ad indennizzare i cittadini vittime di atti violenti in modo equo ed adeguato

Con la recentissima sentenza emessa il 16 luglio 2020 nel procedimento C-129/19, la Grande Sezione della Corte di giustizia dell’Unione europea ha puntualizzato che i cittadini di uno Stato membro dell’Unione, vittime di un reato intenzionale violento, hanno diritto ad un indennizzo da parte del medesimo Stato, qualora l’autore del reato non possa essere individuato o condannato al risarcimento.

La questione trae origine dall’interpretazione (a dir poco restrittiva) data dal Governo italiano riguardo alla Direttiva 2004/80/CE nella quale si contemplava, nell’ambito dei sistemi di indennizzo da istituirsi in ciascuno Stato membro a favore delle vittime di un crimine, la previsione di una specifica tutela per coloro che si trovassero in uno Stato diverso da quello di residenza al momento del fatto.

Con l’approvazione della legge 7 luglio 2016, n. 122 (dopo ben 36 anni), lo Stato italiano si è conformato agli obblighi derivanti dalla suddetta Direttiva, prevedendo il diritto all’indennizzo nei confronti delle vittime di reati violenti, ed altresì stabilendo i relativi importi: “a) per il reato di omicidio, nell’importo fisso di euro 7.200, nonché, in caso di omicidio commesso dal coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa, nell’importo fisso di euro 8.200 esclusivamente in favore dei figli della vittima; b) per il reato di violenza sessuale di cui all’art. 609-bis del codice penale, salvo che ricorra la circostanza attenuante della minore gravità, nell’importo fisso di euro 4.800; c) per i reati diversi da quelli di cui alle lettere a) e b), fino a un massimo di euro 3.000 a titolo di rifusione delle spese mediche e assistenziali”.

Nel 2005 ad una donna, cittadina italiana residente in Italia, veniva riconosciuto un risarcimento di Euro 50.000 in quanto vittima di violenza sessuale ma, essendo latitanti gli autori del reato, tale somma non veniva mai corrisposta.

Nel 2009 la donna citava in giudizio la Presidenza del Consiglio dei Ministri “… al fine di far dichiarare la responsabilità extracontrattuale della Repubblica italiana per non avere correttamente e integralmente attuato gli obblighi derivanti dalla direttiva 2004/80, in particolare l’obbligo previsto dall’articolo 12, paragrafo 2, della stessa”. Nel 2010 il Tribunale di Torino accoglieva la richiesta e condannava la Presidenza del Consiglio al pagamento della somma di Euro 90.000. Il provvedimento veniva impugnato e, nel 2012, la Corte d’Appello di Torino riformava in parte la sentenza, riducendo l’importo ad Euro 50.000.

La Presidenza del Consiglio proponeva ricorso per Cassazione, deducendo, tra l’altro, che “… la direttiva 2004/80 non è fonte di diritti direttamente azionabili da un cittadino dell’Unione nei confronti del suo Stato membro di residenza, essendo essa riferibile unicamente alle situazioni transfrontaliere e finalizzata ad assicurare l’accesso delle vittime di un reato intenzionale violento commesso nel territorio di uno Stato membro diverso da quello della loro residenza alle procedure di indennizzo previste nello Stato membro di consumazione di detto reato”.

Il Giudice del rinvio, rilevando due criticità nella fattispecie in esame, sottoponeva alla Corte europea altrettante questioni pregiudiziali:

“ [1) S]e – in relazione alla situazione di intempestivo (e/o incompleto) recepimento nell’ordinamento interno della [direttiva 2004/80], non self executing, quanto alla istituzione, da essa imposta, di un sistema di indennizzo delle vittime di reati violenti, che fa sorgere, nei confronti di soggetti transfrontalieri cui la stessa direttiva è unicamente rivolta, la responsabilità risarcitoria dello Stato membro, in forza dei principi recati dalla giurisprudenza della CGUE (tra le altre, sentenze “Francovich” e “Brasserie du Pecheur e Factortame III”) – il diritto [dell’Unione europea] imponga di configurare un’analoga responsabilità dello Stato membro nei confronti di soggetti non transfrontalieri (dunque, residenti), i quali non sarebbero stati i destinatari diretti dei benefici derivanti dall’attuazione della direttiva, ma, per evitare una violazione del principio di uguaglianza/non discriminazione nell’ambito dello stesso diritto [dell’Unione europea], avrebbero dovuto e potuto – ove la direttiva fosse stata tempestivamente e compiutamente recepita – beneficiare in via di estensione dell’effetto utile della direttiva stessa (ossia del sistema di indennizzo anzidetto).

[2)] Condizionatamente alla risposta positiva al quesito che precede[,] se l’indennizzo stabilito in favore delle vittime dei reati intenzionali violenti (e, segnatamente, del reato di violenza sessuale, di cui all’art. 609-bis [del codice penale]) dal decreto del Ministro dell’interno 31 agosto 2017 [emanato ai sensi del comma 3 dell’art. 11 della legge 7 luglio 2016, n. 122 (…)] nell’importo fisso di euro 4.800 possa reputarsi “indennizzo equo ed adeguato delle vittime” in attuazione di quanto prescritto dall’art. 12, par. 2, della direttiva 2004/80”.

Dopo un’accurata disamina della Direttiva 2004/80, la Corte ha risolto tutti i motivi di dubbio.

Preliminarmente, il fatto che sia stato corrisposto alla vittima un indennizzo (pari ad Euro 4.800) non incide sull’oggetto del procedimento principale, teso “… a far condannare la Repubblica italiana al risarcimento del danno che l’interessata afferma di avere subito a causa dell’inadempimento, da parte di tale Stato membro, dell’obbligo di trasporre in tempo utile l’articolo 12, paragrafo 2, della direttiva 2004/80”.

In merito all’applicabilità del regime di responsabilità extracontrattuale nei confronti di uno Stato membro per violazione del diritto dell’Unione, “… secondo la giurisprudenza costante della Corte, ai singoli lesi è riconosciuto un diritto al risarcimento dei danni causati da violazioni del diritto dell’Unione imputabili a uno Stato membro purché siano soddisfatte tre condizioni, vale a dire che la norma di diritto dell’Unione violata sia preordinata a conferire diritti ai singoli, che la violazione di tale norma sia sufficientemente qualificata e che sussista un nesso causale diretto tra tale violazione e il danno subito da tali singoli”.

Alla luce di quanto previsto dall’art. 12 , par. 2 della Direttiva “… fatto salvo quanto ricordato al punto 29 della presente sentenza, e sempre che siano soddisfatte le altre condizioni previste dalla giurisprudenza richiamata al punto 34 della presente sentenza, un singolo ha diritto al risarcimento dei danni causatigli dalla violazione, da parte di uno Stato membro, del suo obbligo derivante dall’articolo 12, paragrafo 2, della direttiva 2004/80, e ciò indipendentemente dalla questione se tale singolo si trovasse o meno in una situazione transfrontaliera nel momento in cui è stato vittima di un reato intenzionale violento”.

In secondo luogo, con riguardo all’adeguatezza del sistema forfettario previsto dall’ordinamento italiano in materia, viene dato atto che i singoli Stati membri godono di un certo margine di discrezionalità. Conseguentemente, l’indennizzo “… non deve necessariamente garantire un ristoro completo del danno materiale e morale subito dalla vittima”. Tuttavia, esso non può e non deve consistere in un importo “… puramente simbolico o manifestamente insufficiente”.

Pertanto, “… un indennizzo forfettario concesso alle vittime di violenza sessuale sulla base di un sistema nazionale di indennizzo delle vittime di reati intenzionali violenti non può essere qualificato come «equo ed adeguato», …  qualora sia fissato senza tenere conto della gravità delle conseguenze del reato per le vittime, e non rappresenti quindi un appropriato contributo al ristoro del danno materiale e morale subito”.

Deve conclusivamente ritenersi come sia davvero poco comprensibile ritenere equo un risarcimento di Euro 4.800,00 per la vittima di violenza sessuale, per riferirsi al caso in questione, ciò dovrebbe far molto riflettere sul senso profondo di insicurezza in cui viviamo ed, in particolare, in cui molte donne quotidianamente si trovano a vivere.

Fideiussioni omnibus: anche la giurisprudenza di merito propende per la nullità dell’intero contratto

Con riguardo alle fideiussioni stipulate in violazione della normativa antitrust, la Corte d’Appello di Bari in una recentissima pronuncia (n. 45 del 15 gennaio 2020) ha ribadito la nullità delle medesime.

In primo luogo, si considera “… irrilevante, ai fini della “legittimazione” degli appellanti ad eccepire la nullità della fideiussione per violazione della L. 287/90, la verifica della loro qualità di “consumatori”; ciò in quanto “… la disciplina dettata dalla legge del 10 ottobre 1990 n. 287, tutelando la libertà di concorrenza, ha come destinatari tutti i partecipanti al mercato, imprenditori come consumatori, in quanto potenzialmente portatori di un interesse alla conservazione del suo carattere competitivo”.

In secondo luogo, il Giudicante sottolinea come, con sentenza n. 29810/2017, la Corte di Cassazione avesse dichiarato nulli i contratti stipulati “… in conformità ad un’intesa restrittiva della concorrenza … a prescindere dalla anteriorità del patto rispetto all’accertamento dell’illiceità dell’intesa da parte dell’autorità preposta all’applicazione della disciplina antitrust … ritenendo rilevante solo che l’intesa a “monte” fosse antecedente rispetto alla negoziazione a “valle”, di modo che l’illecito anticoncorrenziale travolgesse il negozio concluso in conformità allo stesso.

Il dato di partenza è, perciò, costituito dall’aver la fideiussione recepito disposizioni dello schema contrattuale predisposto dall’associazione bancaria per la stipula delle cd. fideiussioni omnibus (segnatamente, artt. 2, 6, 8) che, “nella misura in cui venivano applicate in modo uniforme” dalle proprie associate, sono state giudicate in contrasto con l’art. 2, 2 comma, lett. a), L. n. 287 del 1990 dalla Banca d’Italia, nella qualità di Autorità garante della concorrenza tra istituti creditizi, la quale, nel suddetto provvedimento (n. 55 del 2 maggio 2005), ha altresì stabilito che l’ABI emendasse le proprie circolari dalle disposizioni vietate.

Pertanto, seguendo il ragionamento della S.C., ogni qual volta il contratto di fideiussione costituisca l’applicazione del suddetto schema ABI, quel patto, ancorché anteriore al 2 maggio 2005, va dichiarato nullo”.

Secondo la Corte d’Appello, in sostanza, “… affermare la sopravvivenza nei contratti “a valle” di una clausola oggetto di un’intesa vietata significherebbe eludere la normativa a tutela della concorrenza …” e dunque, in definitiva, sarebbe del tutto illogico “… affermare la nullità dell’intesa e, allo stesso tempo, la validità dei contratti stipulati in sua esecuzione”.

Infine, per quanto attiene alla questione della parziale o totale nullità del patto fideiussorio, la Corte territoriale ha stabilito “…  pur nella consapevolezza di una giurisprudenza che sul punto appare fortemente divisa, di dar continuità all’orientamento – già espresso con il precedente arresto del 21 marzo 2018 (sent. n. 526) – favorevole alla nullità totale del contratto …”.

Con riguardo al caso in esame, la Corte osserva come “… lo schema di fideiussione omnibus oggetto dell’intesa vietata assolva ad una “funzione specifica e diversa da quella della fideiussione civile“, funzione che “verrebbe meno se le clausole più significative fossero eliminate dallo schema” (v. par. 36 cit. provv. B.I.). In definitiva, senza le clausole nulle, la banca non avrebbe accettato la fideiussione, la cui funzione “indennitaria” e di garanzia del cd. “effetto solutorio definitivo” sarebbe  inevitabilmente venuta meno, facendo così perdere alla banca l’interesse al rilascio della garanzia.

Del resto, se così non fosse, non si spiegherebbe la ragione per cui le banche, nonostante le prescrizioni emanate dalla Banca d’Italia, abbiano continuato a richiedere il rilascio di fideiussioni mediante i moduli contrattuali contenenti le clausole nulle …”.

La conclusione, pertanto, è inevitabile: “Escluso, quindi, che un contratto  identico a quello stipulato, ma privo delle clausole nulle, sarebbe stato proposto dalla banca, va dichiarata la nullità dei dedotti contratti di fideiussione, ai sensi dell’art. 1419, 1° co., c.c. (sul punto, V. Cass. 24044/19)”.

Consenso informato: la Cassazione torna a fare chiarezza

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 28985 depositata l’11 novembre 2019, ha compiuto una accurata ed esaustiva analisi delle caratteristiche  che contraddistinguono il c.d. “consenso informato”, che nel corso degli anni ha finito per costituire una parte assai rilevante del contenzioso in tema di responsabilità sanitaria.

Premesso come ormai sia pacifico nella giurisprudenza di legittimità il concetto secondo cui “… la manifestazione del consenso del paziente alla prestazione sanitaria costituisce esercizio di un autonomo diritto soggettivo all’autodeterminazione proprio della persona fisica … che – se pure connesso – deve essere tuttavia tenuto nettamente distinto – sul piano del contenuto sostanziale – dal diritto alla salute …“, i Giudici della III Sezione rammentano quanto deciso dalla Consulta in materia: “… il consenso informato si configura quale vero e proprio diritto della persona e trova fondamento nei principi espressi nell’articolo 2 Cost., che ne tutela e promuove i diritti fondamentali, e negli articoli 13 e 32 Cost. …  La circostanza che il consenso informato trova il suo fondamento negli articoli 2, 13 e 32 Cost. pone in risalto la sua funzione di sintesi di due diritti fondamentali della persona: quello all’autodeterminazione e quello alla salute in quanto, se è vero che ogni individuo ha il diritto di essere curato, egli ha, altresì, il diritto di ricevere le opportune informazioni in ordine alla natura e ai possibili sviluppi del percorso terapeutico cui può essere sottoposto, nonché delle eventuali terapie alternative; informazioni che devono essere le più esaurienti possibili, proprio al fine di garantire la libera e consapevole scelta da parte del paziente e, quindi, la sua stessa libertà personale …” (Corte Costituzionale, sentenza 23.12.2008 n. 438).

Conseguentemente, quindi, il medico “… è tenuto, in ogni caso, a rendere edotto il paziente, indipendentemente dalla riconducibilità o meno di tale attività informativa ad un vincolo contrattuale o ad un obbligo legale, trovando titolo il dovere in questione nella qualificazione “illecita” della condotta omissiva o reticente, in quanto violativa di un diritto fondamentale della persona, e dunque da ritenere “contra jus”, indipendentemente dalla sussunzione del rapporto medico-paziente nello schema contrattuale o del contatto sociale, ovvero dell’illecito extracontrattuale …”.

Riconosciuta l’autonomia dei due tipi di condotta illecita (omessa informazione da un lato e trattamento terapeutico dall’altro) nonché la diversità degli interessi in gioco, la Corte precisa che “… la relazione medico-paziente si caratterizza per la unitarietà del rapporto giuridico articolato in plurime obbligazioni tra loro poste in nesso di connessione strumentale, in quanto tutte convergenti al perseguimento del risultato della cura e del risanamento del soggetto, sicché non può affermarsi … – una assoluta autonomia delle fattispecie illecite (per omessa informazione e per errata esecuzione del trattamento terapeutico), tale da escludere ogni interferenza delle stesse nella produzione del medesimo danno-conseguenza, bene essendo – invece – possibile che anche l’inadempimento della obbligazione avente ad oggetto la corretta informazione sui rischi-benefici della terapia venga ad inserirsi tra i fattori “concorrenti” della stessa serie causale determinativa del pregiudizio alla salute, dovendo, pertanto, riconoscersi alla omissione informativa una astratta capacità plurioffensiva, in quanto potenzialmente idonea a ledere distinti interessi sostanziali, rispettivamente, il diritto alla autodeterminazione ed il diritto alla salute – entrambi, quindi, suscettibili di reintegrazione risarcitoria, laddove sia fornita la prova che dalla lesione di ciascuno di tali diritti siano derivate specifiche conseguenze dannose”.

Infatti, proseguono i Giudici, “… la domanda di risarcimento danni per violazione del diritto alla autodeterminazione, in materia di responsabilità sanitaria, può, in astratto, avere per oggetto tanto il danno biologico conseguito ad un intervento inesattamente eseguito, quanto “altri e diversi” danni di natura non patrimoniale – non incidenti sulla capacità psicofisica – o di natura patrimoniale”. Ancora più in dettaglio, “… nel caso in cui alla mancanza di preventivo consenso consegua soltanto un “danno biologico” (perché soltanto questo danno viene allegato e dimostrato dal danneggiato), ai fini dell’accertamento della causa immediata e diretta di tale danno-conseguenza, deve essere indagata la relazione che viene ad istituirsi tra inadempimento dell’obbligo di acquisizione del consenso informato del paziente ed inesatta esecuzione della prestazione professionale, dovendo accertarsi quale sarebbe stata la scelta compiuta dal paziente se correttamente informato:

se il paziente, qualora fosse stato compiutamente informato dei rischi prevedibili derivanti dal trattamento, avrebbe comunque prestato senza riserve il consenso a quel tipo di intervento …, l’inadempimento dell’obbligo informativo viene ad esaurirsi in una fattispecie autonoma priva di conseguenze dannose, e pertanto detta omissione non solo non può concorrere ma neppure costituire mero presupposto del “danno biologico” …, quindi, in assenza di altre specifiche tipologie di danni-conseguenza allegati e dimostrati dal danneggiato, all’accertamento della omissione informativa non consegue alcun (ulteriore) obbligo risarcitorio, non inserendosi la violazione del diritto alla autodeterminazione nella serie causale originata, invece, esclusivamente dall’inesatto adempimento della prestazione professionale da cui è derivato il danno biologico …

se il paziente, debitamente informato, avrebbe, invece, rifiutato di sottoporsi al trattamento sanitario, l’atto medico successivo viene a palesarsi come lesione personale arrecata “contra nolentem” e l’effetto negativo per la salute scaturente dalla inesatta esecuzione della prestazione (danno biologico) viene a costituire danno-conseguenza riferibile “ab origine” alla violazione … del diritto di scelta contraria del paziente (scelta da ricostruire ora per allora mediante giudizio controfattuale), configurandosi la prestazione sanitaria inesatta come condotta illecita susseguente violativa, al tempo stesso, della presunta volontà contraria e del diritto alla salute …”.

In conclusione, “… Il risarcimento del danno da lesione del diritto di autodeterminazione che si sia verificato per le non imprevedibili conseguenze di un atto terapeutico, pur necessario ed anche se eseguito “secundum legem artis”, ma tuttavia effettuato senza la preventiva informazione del paziente circa i suoi possibili effetti pregiudizievoli e dunque senza un consenso consapevolmente prestato, dovrà conseguire alla allegazione del relativo pregiudizio ad opera del paziente, riverberando il rifiuto del consenso alla pratica terapeutica sul piano della causalità giuridica ex articolo 1223 c.c. e cioè della relazione tra evento lesivo del diritto alla autodeterminazione – perfezionatosi con la condotta omissiva violativo dell’obbligo informativo preventivo – e conseguenze pregiudizievoli che da quello derivano secondo un nesso di regolarità causale.

Il paziente che alleghi l’altrui inadempimento sarà dunque onerato della prova del nesso causale tra inadempimento e danno, posto che:

  1. a) il fatto positivo da provare è il rifiuto che sarebbe stato opposto dal paziente al medico;
  2. b) il presupposto della domanda risarcitoria è costituito dalla scelta soggettiva del paziente, sicché la distribuzione del relativo onere va individuato in base al criterio della cd. “vicinanza della prova”;
  3. c) il discostamento della scelta del paziente dalla valutazione di necessità/opportunità dell’intervento operata dal medico costituisce eventualità non corrispondente all'”id quod plerumque accidit”.

Tale prova potrà essere fornita con ogni mezzo, ivi compresi il notorio, le massime di esperienza, le presunzioni, queste ultime fondate, in un rapporto di proporzionalità diretta, sulla gravità delle condizioni di salute del paziente e sul grado di necessarietà dell’operazione, non potendosi configurare, “ipso facto”, un danno risarcibile con riferimento alla sola omessa informazione, attesa l’impredicabilità di danni “in re ipsa” nell’attuale sistema della responsabilità civile“.

Deve conclusivamente ritenersi il provvedimento sopra riassunto abbia il merito di aver esaustivamente specificato i termini della questione che, già in passato, la Suprema Corte aveva esaminato fornendo interpretazioni sostanzialmente in linea con l’attuale, ultima, pronunzia.

Preliminare di compravendita: se l’immobile proviene da donazione, la circostanza non deve essere taciuta

Con sentenza n. 32694 depositata il 12 dicembre 2019, la II Sezione civile della Corte di Cassazione ha innovato il precedente orientamento in materia di immobili oggetto di donazione.

La Suprema Corte, nell’affrontare la questione, mostra di tener conto anche delle pratiche invalse nell’uso comune da parte degli istituti bancari, notoriamente riluttanti ad erogare mutui qualora si verta in tali condizioni.

Ai sensi dell’art. 1481 c.c., il compratore può cautelarsi, sospendendo il pagamento del prezzo pattuito, dal rischio che il bene possa essere oggetto di rivendicazione da parte di terzi. Tale norma si applica anche in caso di contratto preliminare: “Quando, in relazione al bene promesso in vendita, sussista il pericolo attuale e concreto di evizione, è concessa al promittente acquirente la facoltà di rifiutarsi di concludere il contratto definitivo fino a quando non venga eliminato tale pericolo” (Cass. n. 24340/2011).

Fino ad oggi, la giurisprudenza di legittimità aveva tuttavia circoscritto l’applicabilità dell’istituto: “Il semplice fatto che un bene immobile provenga da donazione e possa essere oggetto teoricamente di una futura azione di riduzione per lesione di legittima esclude di per sé che esista un pericolo effettivo di rivendica e che il compratore possa sospendere il pagamento del terzo o pretendere la prestazione di una garanzia” (Cass. n. 2541/1994).

Anche per i Giudici della II sezione è “… innegabile che la teorica instabilità insita nella provenienza non determina per sé stessa un rischio concreto e attuale che l’acquirente del donatario si veda privato dell’acquisto”.

Tuttavia, “… con riferimento alla provenienza da donazione, una indagine che abbia come punto di riferimento esclusivo la verifica del pericolo nel significato dell’articolo 1481 c.c. coglie solo un aspetto del problema. In altre parole è certo che in presenza di un concreto e attuale pericolo di rivendica, … il promissario, al quale sia stata taciuta la provenienza da donazione, sarà certamente abilitato a rifiutare la stipula del contratto definitivo. Nello stesso tempo, però, tale conclusione non può voler dire a contrario che, fino a quando quel pericolo non sia configurabile, la provenienza da donazione sia circostanza irrilevante sulle condizioni dell’acquisto, tale da poter essere impunemente taciuta dal promittente venditore, rimanendo il promissario, ignaro della provenienza, invariabilmente obbligato all’acquisto”.

In particolare, non si può prescindere da tale circostanza ove si consideri che, in base all’art. 1759 c.c., il mediatore è tenuto a riferire alle parti anche la provenienza dell’immobile da donazione. A fortiori, dunque, il promittente venditore non potrà certo omettere di farne menzione. Ciò in quanto “… il semplice fatto che il sistema di tutela dei legittimari contempli teoricamente eventualità che siano sacrificati anche gli acquirenti del donatario, siano essi acquirenti della proprietà o acquirenti di diritti reali di godimento o di garanzia (articolo 561, 563 c.c.), costituisce circostanza che non è priva di conseguenze sulla sicurezza, la stabilità e le potenzialità dell’acquisto programmato con il preliminare”.

Questo il principio di diritto enunciato: “In tema di preliminare di vendita, la provenienza del bene da donazione, anche se non comporta per sé stessa un pericolo concreto e attuale di perdita del bene, tale da abilitare il promissario ad avvalersi del rimedio dell’articolo 1481 c.c., è comunque circostanza influente sulla sicurezza, la stabilità e le potenzialità dell’acquisto programmato con il preliminare. In quanto tale essa non può essere taciuta dal promittente venditore, pena la possibilità che il promissario acquirente, ignaro della provenienza, possa rifiutare la stipula del contratto definitivo, avvalendosi del rimedio generale dell’articolo 1460 c.c., se ne ricorrono gli estremi“.

Ne consegue come, in base al principio oggi stabilito che rende quindi più adeguato il senso della completa conoscenza di tutti gli aspetti della compravendita che debbono essere trasparentemente posti all’attenzione del compratore perché egli li possa valutare compiutamente, il promittente venditore ed i mediatori incaricati dovranno ben porre considerazione riguardo alle comunicazioni da rivolgere al promissario acquirente.

Riproduzioni informatiche e loro disconoscimento: la Cassazione ribadisce i limiti in materia

Con ordinanza n. 24613 del 2 ottobre 2019, la Sezione Lavoro della Suprema Corte torna a confermare l’orientamento della giurisprudenza di legittimità, con riguardo all’art. 2712 c.c., sottolineando che il disconoscimento di una riproduzione informatica, affinché quest’ultima venga privata di efficacia probatoria, non può essere espresso in modo generico, bensì “… deve essere chiaro, circostanziato ed esplicito, dovendosi concretizzare nell’allegazione di elementi attestanti la non corrispondenza tra realtà fattuale e realtà riprodotta”. Di seguito il testo del provvedimento della Suprema Corte.

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Presidente
Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere
Dott. CINQUE Guglielmo – rel. Consigliere
Dott. BOGHETICH Elena – Consigliere
Dott. CIRIELLO Antonella – Consigliere
ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 4586/2015 proposto da:

(OMISSIS), elettivamente domiciliato in (OMISSIS), presso lo studio dell’Avvocato (OMISSIS), che lo rappresenta e difende unitamente all’Avvocato (OMISSIS) giusta delega in atti.

– ricorrente –

contro

(OMISSIS) S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio dell’Avvocato (OMISSIS), rappresentata e difesa dagli avvocati (OMISSIS), (OMISSIS) in virtù di delega in atti.

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 301/2014 della CORTE D’APPELLO di GENOVA, depositata il 06/08/2014 R.G.N. 233/2014;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio dal Consigliere Dott. GUGLIELMO CINQUE.

RILEVATO

che, con la sentenza n. 301 del 6.8.2014, la Corte di appello di Genova ha confermato la pronuncia emessa dal Tribunale della stessa città con la quale, in relazione alla richiesta avanzata da (OMISSIS) nei confronti della (OMISSIS) spa di corresponsione del compenso per lavoro straordinario svolto, era stato dichiarato in parte prescritto il diritto azionato (per il periodo antecedente al 26.4.2008 risultando il primo atto interruttivo della prescrizione la notifica del ricorso introduttivo avvenuta il 26.4.2013) e, per il resto, non provata la domanda;

che la Corte territoriale, per quello che interessa in questa sede, ha ritenuto che i dischi cronotachigrafi e le schede di viaggio prodotti non erano idonei a dimostrare l’asserito lavoro straordinario espletato sia perché erano stati disconosciuti dalla società (e comunque non sufficienti a tal fine) sia perché, quanto alle schede, mancava l’intestazione e la sottoscrizione della società; inoltre ha rilevato che i capitoli di prova articolati in prime cure effettivamente erano vaghi e generici, come precisato dal primo giudice, rispetto alla esigenza di provare il numero di ore concretamente svolte; infine, ha sottolineato che era superfluo, per quanto sopra detto, l’accertamento sul requisito occupazionale della stabilità reale del rapporto, che avrebbe inciso sul decorso della prescrizione quinquennale;

che avverso la decisione di secondo grado ha proposto ricorso per cassazione (OMISSIS) affidato a due motivi;

che la (OMISSIS) spa ha resistito con controricorso, illustrato con memoria;

che il PG non ha formulato richieste scritte.

CONSIDERATO

che, con il ricorso per cassazione, in sintesi, si censura: 1) la violazione o falsa applicazione di una norma di diritto (articolo 360 c.p.c., n. 3, in relazione all’articoli 115 c.p.c., articolo 2697 c.c. e articolo 2712 c.c.) nonché l’omessa, insufficiente e/o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5) in relazione al mancato accoglimento delle eccezioni proposte dal (OMISSIS) in ordine alla idoneità dei mezzi di prova proposti: in particolare, si sostiene che erroneamente i giudici del merito avevano ritenuto efficace il disconoscimento dei documenti prodotti, con riguardo ad una generica eccezione di difformità dall’originale, senza che vi fosse a sostegno un “quid pluris” che avvalorasse l’effettiva difformità e senza la produzione degli originale; 2) la violazione o falsa applicazione di una norma di diritto (articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in relazione agli articoli 421, 432 c.p.c. e articolo 2697 c.c.) nonché l’omessa, insufficiente e/o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo il giudizio (art., comma 1 n. 5 c.p.c.), in relazione al mancato accoglimento delle eccezioni proposte dal (OMISSIS) in ordine alla idoneità dei mezzi di prova formulati: si rappresenta che erroneamente i giudici del merito avevano ritenuto irrilevanti i capitoli di prova articolati senza tenere conto della particolare natura del lavoro straordinario e della peculiarità dell’attività svolta in concreto caratterizzata dalla necessità di pause che richiedevano la ricostruzione in via presuntiva ed indiziaria dell’orario di lavoro;

che il primo motivo è fondato.

Questa Corte ha affermato, con un principio cui si intende dare seguito, che, in tema di efficacia probatoria delle riproduzioni informatiche di cui all’articolo 2712 c.c. (proprio con riferimento ai dischi cronotachigrafi) il disconoscimento idoneo a farne perdere la qualità di prova, degradandole a presunzioni semplici, deve essere chiaro, circostanziato ed esplicito, dovendosi concretizzare nell’allegazione di elementi attestanti la non corrispondenza tra realtà fattuale e realtà riprodotta (Cass. 2.9.2016 n. 17526; Cass. n. 3122/2015).

Nella fattispecie in esame, invece, il disconoscimento – sia pure in astratto non soggetto ai limiti e alle modalità di cui all’articolo 214 c.p.c. – si è semplicemente manifestato con la espressione: ” (OMISSIS) disconosce espressamente la corrispondenza delle fotocopie dei cronotachigrafi all’attività svolta da (OMISSIS) in costanza di rapporto”.

Come è agevole osservare, esso è consistito in una generica eccezione di difformità dall’originale, senza, però, l’allegazione di ulteriori circostanze idonee a riscontrare l’effettiva diversità dei documenti prodotti rispetto agli originali.

La sentenza, quindi, su tale punto non è condivisibile e la necessaria rivalutazione della documentazione informatica, secondo i criteri sopra evidenziati, comporta, conseguentemente, una rivisitazione del giudizio di ammissibilità e di rilevanza della prova orale articolata, ad essa documentazione collegata, nonché degli ulteriori elementi ai fini di accertare se l’intero quadro probatorio possa ritenersi connotato dalla sussistenza di indizi gravi, precisi e concordanti, idonei a fondare la pretesa creditoria (in termini Cass. n. 13165 del 2018);

che alla stregua di quanto esposto, il primo motivo deve essere, pertanto, accolto, assorbito il secondo; la sentenza deve essere cassata in relazione al motivo accolto e la causa va rinviata alla Corte di appello di Genova in diversa composizione cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il primo motivo, assorbito il secondo; cassa la sentenza in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte di appello di Genova in diversa composizione cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

La cointestazione di un conto corrente bancario non ne trasferisce la proprietà

Con ordinanza n. 21963 del 3 settembre 2019, la III Sezione civile della Corte di Cassazione si è pronunciata in merito ad una controversia che riveste notevole interesse per le implicazioni pratiche della soluzione individuata.

E’ tutt’altro che infrequente, al giorno d’oggi, l’eventualità che una persona in età avanzata decida di delegare ad una o più persone (di solito familiari o parenti) la gestione del proprio conto corrente bancario tramite la contestazione del medesimo, non potendo o non volendo effettuare di persona le attività connesse. Talvolta, però, al momento della successione gli eredi scoprono che somme più o meno ingenti sono state prelevate dai soggetti autorizzati ad operare sul conto.

Qualora si accerti la legittimità delle operazioni, in quanto effettivamente volute dal titolare, nulla quaestio. In caso contrario, si pone il problema della effettiva proprietà delle somme oggetto delle disposizioni.

Al riguardo, la Suprema Corte ha chiarito che la cointestazione è “… una mera dichiarazione rivolta alla banca…”, quindi in sé inidonea a trasferire la titolarità del credito vantato nei confronti della medesima, a meno che non risulti la volontà di cedere il credito stesso unitamente ad una causa che prevenga la nullità del contratto ipoteticamente sottostante.

Pertanto, richiamate analoghe pronunce, la Corte ha ribadito che “…  il trasferimento della proprietà del contenuto di un conto corrente (ovvero dell’intestazione del deposito titoli che la banca detiene per conto del cliente) è una forma di cessione del credito (che il correntista ha verso la banca) e, quindi, presuppone un contratto tra cedente e cessionario”.

Nessun automatismo, dunque, con riguardo alle operazioni poste in essere dai soggetti legittimati in quanto cointestatari, dal momento che la possibilità di disporre delle somme o dei titoli non implica ipso facto, in assenza di cessione (a titolo oneroso o gratuito) del credito, una trasmissione del medesimo.

SMS e le e-mail si configurano quali mezzi di prova con piena efficacia

 La I Sezione civile della Suprema Corte, con l’ordinanza n. 19155 del 17 luglio 2019, ha confermato l’orientamento secondo il quale anche gli strumenti di comunicazione, ormai di uso quotidiano, quali la posta elettronica e lo short message service costituiscono mezzi di prova a tutti gli effetti.

In particolare, i c.d. SMS rientrano nell’ambito di applicazione dell’art. 2712 c.c., in quanto rappresentativi di atti, fatti o dati giuridicamente rilevanti: qualora il contenuto di un messaggio non sia oggetto di contestazione, da parte di colui contro il quale è prodotto in giudizio, esso “… forma piena prova dei fatti e delle cose rappresentate …” *. Anche in presenza di un disconoscimento, tuttavia, non si verificano gli stessi effetti previsti dall’art. 215 c.p.c., 2° comma, relativi alla scrittura privata; infatti, mentre “… in mancanza di richiesta di verificazione e di esito positivo della stessa, la scrittura non può essere utilizzata …”, in altre ipotesi “… non può escludersi che il giudice possa accertare la rispondenza all’originale anche attraverso altri mezzi di prova, comprese le presunzioni …” *.

Inoltre, nel disconoscere un documento, non può farsi ricorso ad una generica contestazione. Si ribadisce infatti che “… il disconoscimento, da effettuare nel rispetto delle preclusioni processuali, anche di documenti informatici aventi efficacia probatoria ai sensi dell’articolo 2712 c.c., deve essere chiaro, circostanziato ed esplicito e concretizzarsi nell’allegazione di elementi attestanti la non corrispondenza tra la realtà fattuale e quella riprodotta”.

Dunque, se nel caso di documenti scritti l’assenza di firma, oppure la sua non autenticità, risolve la questione nel senso di renderli inutilizzabili, i moderni strumenti informatici, che per le loro caratteristiche sono riconducibili ad un soggetto preciso, saranno oggetto di valutazione da parte del giudice.

* Cass. 5141/2019

Danno morale: ancora oggi può essere oggetto di valutazione separata. La Cassazione all’ennesima variazione sul tema…

Con ordinanza n. 8755 del 29 marzo 2019, la III sezione della Suprema Corte, nonostante il contrastante orientamento delle Sezioni unite ormai ultradecennale, ha affermato la possibilità di risarcire il danno morale pur se non come categoria autonoma di danno ma come “figura descrittiva di un aspetto del danno non patrimoniale”.

I giudici hanno infatti rigettato il ricorso presentato da una compagnia assicuratrice, che lamentava una duplicazione delle voci di danno liquidate in sede di appello, sul presupposto dell’obbligo (attesa la natura unitaria ed onnicomprensiva del danno non patrimoniale), per il giudice di merito, “… di tener conto, a fini risarcitori, di tutte le conseguenze (modificative in peius della precedente situazione del danneggiato) derivanti dall’evento di danno, nessuna esclusa …”.

Ricordata la necessità di distinguere tra l’aspetto interiore del danno subito e l’aspetto dinamico-relazionale del medesimo, la Suprema Corte stabilisce che “… nella valutazione del danno alla salute, in particolare … il giudice dovrà, pertanto, valutare tanto le conseguenze subite dal danneggiato nella sua sfera morale (che si collocano nella dimensione del rapporto del soggetto con sé stesso), quanto quelle incidenti sul piano dinamico-relazionale della sua vita (che si dipanano nell’ambito della relazione del soggetto con la realtà esterna, con tutto ciò che, in altri termini, costituisce “altro da sé”) …”, ribadendo altresì che una personalizzazione è possibile soltanto in presenza “… di conseguenze dannose del tutto anomale, eccezionali  ed affatto peculiari …”.

Dunque, mentre si ha una duplicazione in caso di riconoscimento di danno biologico congiuntamente al danno esistenziale, “… una differente ed autonoma valutazione va compiuta con riferimento alla sofferenza interiore patita dal soggetto in conseguenza della lesione del suo diritto alla salute …”.

In sostanza, la liquidazione “… finalisticamente unitaria del danno non patrimoniale … ha pertanto il significato di attribuire al soggetto una somma di danaro che tenga conto del pregiudizio complessivamente subito tanto sotto l’aspetto della sofferenza interiore … quanto sotto quello dell’alterazione/modificazione peggiorativa della vita di relazione in ogni sua forma e considerata in ogni suo aspetto, senza ulteriori frammentazioni nominalistiche …”.

Si verifica quindi una vera e propria contrapposizione, nella giurisprudenza di legittimità, tra sofferenza “interiore” quale elemento a sé stante oppure quale componente del danno biologico tout court, derivandone una inevitabile incertezza che, in teoria, non avrebbe più avuto ragion d’essere a seguito della pronuncia a Sezioni unite del 2008. Difficile al momento prevedere l’evoluzione e l’incidenza che questa attuale pronunzia potrà avere ma, sicuramente, la stessa si presenta come una prospettiva diversa ed ulteriore rispetto a quanto ormai sembrava completamente e conclusivamente assodato.

 

Quando il bugiardino scagiona produttore e distributore…

La Corte di Cassazione, con la recentissima sentenza n. 6587 depositata il 7 marzo 2019*, ha accolto il ricorso presentato da tre case farmaceutiche avverso il provvedimento, emesso dalla Corte d’Appello di Brescia, con cui le stesse erano state condannate a risarcire il paziente che, a seguito dell’utilizzo di un farmaco, aveva contratto una grave malattia.

Nonostante il fatto che nel bugiardino fosse riportata la possibile – benché rarissima –  insorgenza del morbo di Lyell (incidenza pari ad un caso su un milione), il giudice dell’appello aveva condannato le aziende. Secondo il ragionamento della Corte territoriale, qualora non siano noti i fattori scatenanti di una malattia il produttore non può andare esente da responsabilità per il solo fatto di aver segnalato il pericolo nel foglietto illustrativo: tale adempimento non sarebbe sufficiente a soddisfare l’onere di dimostrare di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il verificarsi del danno. Si dovrebbe pertanto rinunciare alla produzione e distribuzione del farmaco, oppure accollarsi il rischio economico di un eventuale ed oneroso risarcimento (quasi un principio di responsabilità oggettiva).

Tuttavia, la Suprema Corte ha ritenuto di non dover condividere la tesi, dal momento che il tenore dell’art. 2050 c.c. non consente in alcun modo di giungere a siffatta conclusione: perché possa considerarsi soddisfatto l’onere della prova liberatoria, “… è necessario valutare, da un lato, la rigorosa osservanza di tutte le sperimentazioni e i protocolli previsti dalla legge prima della produzione e della commercializzazione del farmaco …; dall’altro l’adeguatezza della segnalazione dell’effetto indesiderato …”; inoltre  la Corte precisa come “ … non una qualunque informativa circa i possibili effetti collaterali del farmaco possa scriminare la responsabilità dell’esercente, essendo invece necessario che l’impresa farmaceutica svolga una costante opera di monitoraggio e di adeguamento delle informazioni commerciali e terapeutiche, allo stato di avanzamento della ricerca, al fine di eliminare o almeno ridurre il rischio di effetti collaterali dannosi e di rendere edotti nella maniera più completa ed esaustiva possibile i potenziali consumatori”.

Attesa la potenziale pericolosità di qualunque farmaco, infatti, deve in ogni caso tenersi presente la funzione sociale connessa all’attività di produzione e vendita di prodotti farmaceutici (con i conseguenti vantaggi per la collettività), a fronte dell’ineludibile obbligo di fornire informazioni complete e continuamente aggiornate per consentire una consapevole scelta da parte del paziente.

  • Corte di Cassazione, Sez.III Civile, 7 marzo 2019